1. Omaggio a Niépce. 1968-1970

 

La fotografia che ho intitolato Omaggio a Niépce è il risultato di un riesame del mio lavoro di fotografo che ho fatto alcuni anni fa. Allora ho ripreso a leggere libri di storia della fotografia, soprattutto sulle origini della fotografia, certe riflessioni, certi scritti di Niépce, di Fox Talbot, di Daguerre e di altri. In questi scritti, ciò che maggiormente risalta è lo stupore di aver trovato finalmente il modo di sganciare la mano dell’uomo dall’operazione creativa. Si tratta di un’utopia; però è anche vero il contrario, cioè è vero che nella superficie sensibile c’è un potere che va al di là della mano dell’uomo. Da questo punto di vista, ti trovi a fare i conti non soltanto con la realtà oggettiva, col mondo, ma anche con una superficie che è così determinante da portarti là dove, a volte, non vorresti. Sei costretto cioè ad accettare la realtà. Walter Benjamin, contrapponendo la fotografia alla pittura di ritratto, dice: «Nel caso delle fotografie, avviene qualcosa di nuovo e di singolare. La pescivendola di New Haven, che guarda a terra con un pudore così indolente, così seducente, resta qualche cosa che non si risolve nell’arte del fotografo Hill; qualcosa che è anche nell’effigie ancora reale e che non potrà mai risolversi totalmente in arte».

Riflettendo su tutto questo, mi sono trovato a fare i conti anche con il mio lavoro, un lavoro che ho cominciato per caso. Non sono stato neanche un dilettante fotografo: la prima foto che ho fatta, l’ho subito venduta. Ero uno studente, bivaccavo quasi sempre in quella specie di caffè che era allora il Giamaica, una latteria dove si riunivano dei pittori. Qualcuno m’ha prestato una vecchia macchina e mi ha detto: «Un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque-sei all’ombra». E io, con un’enorme diffidenza, ho preso in mano questa macchina. All’inizio, la cosa più eccitante era il laboratorio; intravvedevo la possibilità di salvare una fotografia mal riuscita con un’operazione di camera oscura, cioè usando una particolare carta, un certo taglio. Poi mi sono reso conto che il laboratorio è fondamentale, perché l’immagine che realizzi con l’apparecchio non è completa se non è stampata da te, o secondo tue indicazioni molto precise, ma che il laboratorio non può essere una panacea per i mali della ripresa, non è fatto per salvare dei negativi sbagliati, ma soltanto per rendere un buon negativo in tutto il suo valore. Invece, il laboratorio è importante se lo si usa per quello che è in se stesso, cioè se si elimina l’ottica, e si lavora direttamente sulle superfici, siano esse carte o pellicole, come hanno fatto Man Ray o Moholy-Nagy, e anche molti altri, con l’intenzione precisa di utilizzare quanto avviene nel laboratorio come fatto autonomo, come un mezzo per arrivare a un’immagine la più pura, la più diretta possibile.

Ricordo la gioia che mi diede il vedere le mie prime fotografie riuscite: scoprivo in quelle immagini cose che non avevo previsto, e che vi erano entrate proprio in virtù del meccanismo, della macchina, dell’ottica, della chimica. E questo mi ha dato anche una sensazione di potenza. Capita, dopo un poco di tempo, che si dimentica quanto si deve alla macchina; ti sembra che tutto succeda per opera tua, e finisci col chiedere all’apparecchio di trasmetterti tutto il suo potere sen za preoccuparti dello scopo, purché ti garantisca il successo. Si finisce così per l’attribuirsi un potere che non è altro che una forza in più, che soltanto ti sei trovato m mano.

Verso il 1958 un libro ha contato molto per me: Gli americani di Robert Frank. In quegli anni mi interessava un’altra letteratura fotografica: i grandi fotografi mi sembravano quelli più vicini al pericoloso gioco del potere di cui ho appena parlato. Nel libro di Frank vedevo invece per la prima volta un fotografo che non utilizzava nessun trucco, che faceva delle fotografie che sembravano di un dilettante, tanto erano semplici tecnicamente. Ci ho messo alcuni anni a capirlo, perché, intanto, ero distratto dal lavoro professionale, dalle necessità, da tante cose. Finché ho avuto chiaro il senso dell’opera di Frank: questo non abusare per confondere il gioco della realtà, delle cose, della vita; il fatto che la macchina fotografica lavori direttamente sulla vita, usando la pelle della gente. Il discorso tecnico fotografico di Frank è il più povero possibile: usa una piccola camera, un campo angolare abbastanza vasto da non enfatizzare il dettaglio. Ho guardato molte volte, come soluzione opposta, il libro su New York di William Klein. Li senti che il fotografo vorrebbe entrare dappertutto, essere di più dentro le cose con le sue mani, con la sua ideologia, che la realtà com’è non gli basta, e cosi taglia, ingrandisce, brucia, interviene più che può sul già fatto, sul negativo. Mi domandavo perché, se una cosa di per sé è gridata, si deve aggiungere un altro grido; se una cosa è già fotografica, imporgli un altro elemento fotografico.

Poi, nel 1964 sono andato per qualche mese in America, per una mia necessità, perché là nessuno mi aveva mandato. Ho sentito il bisogno di andarci dopo aver visto la Biennale di Venezia, dove c’erano Johns, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Stella, Chamberlain. In un primo momento, negli Stati Uniti sono stato più stordito che convinto; poi, mi sono entusiasmato, perché non si trattava soltanto di prendere contatto con una certa pittura, quanto di entrare nel mondo dei pittori, e al tempo stesso di condividere un momento straordinario, di essere il testimone di una cosa vera mente importante nel momento in cui capitava e si affermava. Avevo già fotografato degli artisti, per esempio Severini, per esempio Carrà, ma mi era sembrato di fotografare dei superstiti. Se mai avrei voluto fotografarli nel 1910, nel ’12: allora avrebbe avuto un senso, mentre adesso non facevo che registrare la loro sopravvivenza fisica come personaggi.

Dall’esperienza americana è nato un libro, e se le foto di quel libro hanno un senso, è proprio nella partecipazione che allora temevo, perché ero consapevole di un rischio, perché sapevo che la simpatia per i tipi che andavo incontrando e per quanto accadeva poteva tradirmi. Per questa ragione, per sfuggire in parte a questo pericolo, ho usato quasi sempre uno stesso obiettivo; non per deformare facce o cose, secondo la moda di quegli anni, ma per restare il più possibile fuori, lontano, staccato da quanto accadeva, e al tempo stesso coinvolgere la maggior quantità di cose e il maggior spazio possibile, non isolare i protagonisti, ma immerger li totalmente nel loro ambiente. Mentre fotografavo a New York e mi guardavo in giro, nella casa di Jim Dine mi ha sorpreso una piccola fotografia incorniciata, dove si vede l’interno di una camera, probabilmente di un albergo, con un televisore acceso e la faccia sorridente della presentatrice. La camera è vuota, non c’è nessuna presenza se non quella mediata dal televisore. Continuavo il mio lavoro, e ogni tanto pensavo a quella fotografia, al senso che aveva quello che andavo facendo se quella foto aveva effettivamente un senso. Era una fotografia di Friedlander, allora completamente sconosciuto – almeno in Europa dove lo è tuttora – perché è un fotografo che ha rifiutato i canali di consumo normali, oppure questi ultimi lo hanno rifiutato. Più tardi, intorno al 1968, ebbi tra le mani una cartella d’incisioni di Jim Dine con delle foto di Friedlander, dove c’è la scelta di una decina di fotografie molto precise, che aprono un discorso nuovo. Mi pare che non ci sia mai stato prima un fotografo così consapevole di quello che un’operazione fotografica coinvolge, di come lo stesso fotografo è dentro, nella macchina o nell’operazione, anche fisicamente, e come questo carichi la foto di tutte le ambiguità che accompagnano i discorsi in prima persona. Tra il fotografo e l’oggetto la macchina si anima, è un baluardo, ma non è più il comodo baluardo alla neutralità del fotografo, né è un ostacolo al suo desiderio di intervenire. Ciò che mi prese allora fu proprio la constatazione di come il fotografo si lasci portare dalla macchina, e viceversa, di come la macchina porta il fotografo, con una scioltezza veramente insolita.

Durante il soggiorno americano, ebbi modo di conoscere Robert Frank e discutemmo di tutto questo. Gli spiegai che nel mio caso volevo essere impersonale, volevo essere uno che arriva sul posto e lascia che la macchina registri. Frank non era d’accordo, diceva che bisognava essere partecipi, prendere le proprie responsabilità, correre il rischio non solo di sbagliare, ma di intervenire e di giudicare. Io volevo essere testimone, volevo accettare quante più cose possibile, ma non riuscivo a spiegarlo. Era chiaro che dentro di me c’era una preparazione o una impreparazione, c’era una storia cioè, per cui, alla fine, contro la mia stessa volontà, nella fotografia, saltava fuori il mio punto di vista. Ma non sapevo che l’essere consapevoli di questo fatto vuole anche dire avere un atteggiamento diverso nel momento della ripresa, nel momento della scelta di che cosa e di come fotografare. Oggi, mi rendo conto che le fotografie scattate in America sono una presa di coscienza e non una registrazione, una presa di coscienza come lo è qualsiasi autentica operazione conoscitiva.

Così, a un certo punto, ho cominciato delle operazioni sganciate dagli altri, sganciate dalla mia volontà di essere testimoni e di raccogliere l’esperienza altrui, per vedere che cos’è questo sentirsi soli di fronte al fare, che cos’è non cercare più dei puntelli, non cercare più negli altri la verità, ma trovarla soltanto in se stessi, e capire che cos’è questo mestiere, analizzarne le singole operazioni, smontarlo come si fa con una macchina, per conoscerla. Così è nata questa fotografia, questo oggetto, la prima di una serie di verifiche, dopo tante esitazioni, perché temevo che l’operazione fosse troppo cerebrale. Ho dedicato a Niépce questo primo lavoro, perché la prima cosa con la quale mi sono trovato a fare i conti è stata proprio la pellicola, la superficie sensibile, l’elemento cardine chiave di tutto il mio mestiere, che è poi il nucleo intorno al quale ha preso corpo l’invenzione di Niépce. E una verifica, che è prima di tutto un omaggio, un gesto di gratitudine, un dare a Niépce quello che è di Niépce. Per una volta il mezzo, la superficie sensibile, diventa protagonista; non rappresenta altro che se stesso.

Siamo di fronte a un rullo vergine sviluppato; il pezzettino che è rimasto fuori del caricatore ha preso luce indipendentemente dalla mia volontà, perché è il pezzettino che prende sempre luce quando si deve innestare la pellicola sulla macchina: è un fatto fotografico puro. Prima ancora che il fotografo faccia qualsiasi operazione, già è avvenuto qualche cosa. Oltre a questo pezzettino che prende luce all’inizio, ho voluto salvare anche il tratto finale, quello che aggancia la pellicola al rocchetto. E un pezzettino che non si usa mai, che non viene mai alla luce, che si butta via, eppure è fondamentale, è il punto dove finisce una sequenza fotografica. Mettere l’accento su questo pezzetto vuol dire mettere l’accento sul momento in cui togli dalla macchina la pellicola per portarla in laboratorio. Vuol dire chiudere. Anche questa è una presenza fotografica, perché, essendoci ancora appiccicata della colla che fa corpo, la luce in quel punto non passa.

La pellicola è stampata a contatto: si mette il foglio di carta sensibile sotto l’ingranditore, sopra il foglio si dispone il negativo tagliato a strisce, e su questo un vetro piuttosto pesante che tenga schiacciate le strisce, il più possibilmente schiacciate, in modo che i singoli fotogrammi appaiono nitidi, bene incisi. Di solito si usa un foglio molto piccolo, ma io ho voluto mettere in evidenza anche il vetro. Il vetro riquadra l’immagine, e non lo si può scambiare per un fatto grafico aggiunto per incorniciare la fotografia: senza il vetro non ci sarebbe quella certa immagine, e quello che mi piace considerare è come, a seconda dell’inclinazione con cui è stato tagliato il vetro, il filo che circonda l’immagine appaia più o meno sottile. Si vede che non è fatto a mano per creare una cornice; è anch’esso un elemento della fotografia.

Potrei aggiungere che questo omaggio a Niépce rappresenta trentasei occasioni perdute, anzi, trentasei occasioni rifiutate, in un tempo in cui, come scrive Robert Frank, riferendosi al fotogiornalismo, l’aria è divenuta infetta per la puzza di fotografia.